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“E per colpa di un solo volete sommersa la barca? A parere mio, io vi terrei meno triste, se uccideste i vostri nemici a tradimento. Per odio privato voi condannate a morte l’antica repubblica di Firenze”.
“Che significa repubblica? E’ una parola di largo contorno e che dentro di sì comprende libertà da comizio e tirannide d’inquisitori di stato. Il governo dove impunemente si commettono misfatti quali soffersi io non può dirsi libero, e tale invero non fu mai il nostro; e poi io sacrifico volentieri la libertà passaggiera alla forza perenne, madre vera di durevole libertà. Messere, voi pensate avere gettato un germe nel mio cuore, ed lui ha già partorito da parecchio tempo il suo frutto; non pertanto grazie vi siano della proposta. Aiutatemi: quello che non fecero i cinque e i dieci anni, lo faranno i venti; le piaghe del vostro cuore saranno sanate; vi confidi il futuro. Voi mio maestro e mio duca dovete vivere, amare e governare”.
“Camminate la vostra via. Non vi trattenete a guardare i miei fati, io vi sovverrò come e dovunque possa, ma non per vivere; se avessi intenzione di durare nella vita, il Bandino non conosce signore degno della sua servitù, tranne uno solo, e questi è il Bandino”.
Capitolo Nono
Michelangelo Buonarroti
Dante da Castiglione era giunto ai bastioni di San Miniato con mirabile arte condotti per industria del divino Michelangelo. Quantunque il Varchi[13] ci narri nel decimo libro delle sue Storie essere stati biasimati da alcuni perché fatti con troppi fianchi, le cannoniere troppo spesse, per le quali venivano a indebolirsi, e troppo ancora sottili da non potere reggere l’urto delle grosse artiglierie, nondimeno furono tenuti non solo per questi tempi stupendi, ma in epoca più recente meritarono che Vauban, celebrato ingegnere francese, ne levasse la pianta e ne prendesse le misure. Questi bastioni cominciavano fuori della porta San Francesco, e salendo su per il monte circuivano l’orto, il convento e la chiesa di San Miniato; così descritto un larghissimo ovato si ricongiungevano alla porta San Francesco. Nell’orto di San Miniato era alzato un fortissimo cavaliere che guardava il Gallo e Giramontino. Ancora poco sotto del convento di San Francesco fu fatto un altro bastione, il quale con le sue cortine scendeva giù da oriente fino al borgo di Porta San Nicolò e terminava con alcune bombardiere poste sopra Arno: altri bastioni e puntoni e cavalieri costruirono che non importa descrivere, armati di grossi panconi di quercia, ripieni dentro di terra e di stipa, di fuori fasciati con mattoni crudi composti di terra pesta mescolata con capecchio trito.
Non tutte quelle fortificazioni erano condotte a termine nel tempo di cui favelliamo, perocché mancassero i fossi, le vie coperte e simili altri accessorii; e poiché il nemico stava a fronte, e di giorno in giorno si temeva l’assalto, così non smettevano mai il lavorio di giorno o di notte. Dante salendo pel poggio si fermò un momento a contemplare un numero infinito di fiaccole scorrere di su, di giù, da tutti i lati, e al chiarore di questi fuochi ammirò il solenne spettacolo di un popolo irrequieto per la propria difesa, pago, per mercede, del contento che l’opera stessa gli somministrava, senza secondi pensieri, senza idea comunque lontanissima di accordo, nè anche per ombra dubbioso di potere perdere la prova, fidente in Dio, fidente nel suo braccio, affatto sublime; popolo vero insomma, non già sozza, cupida, ignorante, iattante plebe e codarda; onde sospirando ebbe a dire: “Te felice, o popolo, se non ti fossi mai lasciato soverchiare dai tuoi eguali! Le mani che trattano la zappa meglio delle altre saprebbero reggere lo stato.”
Michelangelo Buonarroti, non vecchio ancora, che di poco oltrepassava il cinquantacinquesimo anno, di membra vigorose e spigliate, con quel suo impeto terribile si vedeva trascorrere veloce da un punto all’altro senza posare un momento; pareva lo spirito agitatore di tutto il popolo raccolto lì; lo avreste detto per quel suo roteare fantastico il genio custode della città.
Dante, comunque robustissimo uomo fosse, indarno si affaticava a raggiungerlo; ora se lo vedeva comparire sopra la testa, ora sotto i piedi, or lontano su i lati, sicché quasi stava per disperarsi. Da qualsivoglia parte Michelangelo si volgesse lasciava utili insegnamenti o esempi buoni o parole che poi diventavano sentenze tra quei popolani innamorati della sua virtù. Giunto presso a certo parapetto non anche condotto a termine, parendogli che troppo tardassero a compierlo:
“O neghittosi!” – favellò, – “non sapete voi che da questo lato domani potrebbe entrare la palla mortale per la nostra amorosissima patria?” E gli operai: “l’uomo fa quello che può, maestro, noi non abbiamo mica cento braccia”. “Cento braccia”, – riprende Michelangelo, – “non bastano là dove basta un sol fermo volere?” E gli operai di nuovo: “Non ci garrite, Michelangelo; noi stiamo dietro a questi altri che pure hanno cominciato il compito quattro ore prima di noi”. “Guai a quello”, – replica tosto il Buonarroti, – “che cerca difesa al proprio fallo nel male operato altrui: chi va dietro ad altri non gli passa mai avanti”. “Con voi maestro non si vince nì s’impatta: tra due ore ve lo daremo finito”. “Oh! questo si chiama parlare; arrivederci fra due ore”.
Di lì balza a un fosso, dove gli scavatori essendo addentrati un braccio più della persona nel terreno attendevano a penetrare più oltre; la voce di Michelangelo passando gli ammonisce: “Figliuoli, la terra sui poggi è più solla che al piano; badate che smottando non vi seppellisca: ponete due assi lungo le pareti e puntellate con una trave per traverso a contrasto, allora siete sicuri come in casa vostra.” Altrove volgendosi, ecco incontra un gruppo di uomini i quali si sforzano a portare su in cima al poggio una grossissima lastra di pietra; ci sottopongono tutte le mani; poi riunendo i conati tentano di rotolarla ancora una volta; i muscoli delle braccia risaltavano nella maggiore loro tensione, protuberanti le vene delle tempie, gli occhi quasi scoppiati fuori dell’orbita.
Michelangelo si compiacque alquanto nel considerare qesti arditi contorni; vagheggiò quella parte dell’orditura del corpo umano, poi, soddisfatta la voglia di artista, lo prese amore dei male accorti: “Indietro!” – grida, entrando improvviso in mezzo di loro, – “porgetemi dei travicelli; qui, spingeteli qui dentro; ora vi adattate sotto una pietra; notate, quanto più il punto di appoggio si accosta al punto di contrasto, maggiore forza acquista la leva: ora da questa parte, uniti insieme, pieghiamo la leva verso terra… su… su… su… ecco voltato il lastrone… continuate in questa maniera, e fra mezz’ora lo avrete posto in cima”. Di lì si stacca, e arriva ai fossi che si scavano sopra altra parte del monte: i manovali barellano la terra e, gettandola lungo i baluardi, s’ingegnano a renderli sempre più stabili; un vecchio di bell’apparenza e di sembianza degna di meno umile ufficio, rimasto solo, si sforza di recarsi in capo la barella, e senza aiuto far solo e vecchio quello che gli altri in due e giovani fanno; però la facoltà non rispondeva al proponimento, sicché nel volto gli si legge l’ostinazione che manca, e lo sconforto che comincia. Michelangelo gli ì sopra, lo considera alquanto e poi: “Padre”, – gli dice, – “mi pare che voi non siate fatto per così basse opere”.
“Bassa opera!” – risponde il vecchio; – “quando torni in utilità della Repubblica, io non so come la si possa chiamare bassa”. “Ma via, tra zappare, barellare la terra”, – soggiunge il Buonarroti, – “e dettare leggi ci corre a mio parere una certa tal quale differenza”. E il vecchio: “Quando tutti i Romani zappavano, vinsero tutti.” Michelangelo soprastette alquanto pensoso, quindi riprese: “Però le forze vi mancano… e per troppi anni siete male atto a coteste[14] fatiche”. – “Ah! poco pietoso cittadino, perché mi fai sentire con le tue parole l’amarezza di non potere giovare meglio alla mia patria? Era pure più degno di te, invece di consumare il tempo in vane novelle, stendere le braccia e porgermi aiuto a trasportare la terra”. – “In fede di Dio tu hai ragione.” E qui Michelangelo, presa la barella dalle stanghe di dietro, Perché, salendo il monte, minore peso sentisse il vecchio, gli dava aiuto a portare.
Michelangelo costretto a procedere a lenti passi, concedeva agio al Castiglione di raggiungerlo, come infatti anelante, bagnato di sudore il raggiunse, e tostoché gli venne accanto, con voce ansiosa lo chiamò:
“Messere Michelangelo!”
“Che c’è, mio bel garzone?”
E Dante, vie più accostandosegli, sommessamente gli dice:
“Il gonfaloniere manda per voi”.
“Ora non posso; bisogna prima che porti questa barella; subito dopo sarò con voi”.
Quando la terra fu scaricata, Michelangelo con amorevole piglio si volse al vecchio così interrogandolo:
“Padre, vorreste voi dirmi il vostro nome in cortesia?”
“Nacqui nel contado di Firenze, ho lavorato i suoi campi, ho combattuto le sue battaglie, ho pianto alle sue tribolazioni; il nome nulla aggiunge o toglie alla mia vita: mi chiamo uomo”. E levatasi la barella sopra le spalle, se ne ritornava là donde si era dipartito.
“Lui”, – esclama Michelangelo accennandolo col dito al Castiglione, – “dev’essere uomo fatto grande dalla sventura o dalla pazzia”.
Era cotesto vecchio il padre di Annalena; se Michelangelo indovinasse giusto, a suo luogo e tempo saprete.
Capitolo Decimo
Fra’ benedetto da Fojano
La innocente vergine dorme supina sopra un lettuccio a canto quello del padre, le mani tiene abbandonate lungo i bei fianchi, le gambe tese, il capo alquanto chino su la spalla destra in dolce atto di quiete. Perché sorride la vergine? Sogna aver l’ale alle spalle ed abbracciare su i fianchi un angelo ed esserne abbracciata. Sogna un cielo chiaro e sereno dove si avvolgono perpetuamente in moto armonioso miriadi di globi lucenti, e parle che il compagno le dica: Vieni, voliamo a raggiungere cotesta stella colà che sopra tutte le altre scintilla: e volano, volano… l’aria percossa sibila loro dietro le spalle, e la stella ì raggiunta, poi da lontano contemplano un augellino che si affretta cantando, e il compagno riprende: Vieni, voliamo ad interrogare quell’augelletto – e in meno che non balena gli stanno sopra; lui invano raddoppia il batter dell’ale, e l’hanno preso: Dove vai, uccello, ché tanto ti affretti cantando? – Mi affretto a cibare i miei pennuti, e canto lieto al mio Creatore che mi fece rinvenire l’esca con la quale nutrirli. – Va, va, augelletto; così ti sieno preste l’ale al volo e Dio ti preservi dal falco. – Poi il compagno riprese: L’ora della preghiera ì venuta; e così dicendo comincia dolcemente un inno al Signore; ella si volse a contemplarlo in viso… – santi del paradiso! Vede le belle sembianze di Vico, le quali, quanto lui più s’infervoriva nella preghiera, tanto più diventavano luminose, roventi quasi, alfine i suoi occhi come feriti non possono sostenere la vista, ella si desta… e freme… raggio di sole penetrando traverso lo spiraglio della finestra si posava sopra le sue palpebre.
Le diverse bisogne compiute, Annalena si prostra e prega: “Vergine santissima, il primo pensiero della mia anima risvegliandomi era tuo… ora… non più… ma tu vorrai perdonarmi… non ti ho supplicato che tu m’ispirassi per conoscere se mal facevo ad amare un ente mortale, come amo te?… e l’angelo custode da parte tua non mi ha dissuaso, anzi lui mi parve mi confortasse ad amarlo. Madre di Dio, ti raccomando il mio povero padre; – la mia genitrice già da gran tempo al tuo fianco non abbisogna delle mie preghiere; – e poiché così piace al cielo, non meno ti raccomando il mio diletto…” Qui fissa contemplando la immagine, le parve che dal vetro dentro il quale stava custodita mandasse un baleno: volse la faccia, e…
Vico Machiavelli, splendido in vista quanto l’arcangelo Michele, cinto di forbita armatura, le comparve alle spalle; le lucide armi riflettendo nel vetro lo avevano fatto coruscare del baleno che offese la vergine.
Annalena balza in piedi e presta più della gazzella si ricovra all’altra estremità della stanza. Vico con occhi dimessi cominciò:
“Annalena, vi domando perdono; credeva ritrovare qui vostro padre e intendeva menarlo meco[15] alla rassegna della milizia. Dio vi mandi il buon giorno…”
E volgeva la persona in atto di andarsene. La vergine sempre nel suo ricovero con ambe le mani si fregava gli occhi, timorosa non fosse una illusione. Vico pervenuto sul limitare, stupefatto della strana accoglienza, si ferma ed esclama:
“Lena!”
“La vergine trasalisce, e non le riesce snodare la lingua.
“Lena!” ripete Vico e impetuoso si dirige con presti passi verso di lei così favellando:
“Tanto vi sono ad un tratto diventato increscioso che voi mi rifiutate quello che onestamente non sapreste negare a qualsivoglia cristiano vi occorresse per via, un saluto di pace? In che vi offesi? I giorni vostri io non turbavо mai. Perché sorrideste ai miei ritorni, alle partenze sospiraste? Perché, secondo ch’io mi presentava o lieto o tristo, impallidiste o arrossiste? Erano lusinghe queste? Ed io ti reputavо pura, innocente, come l’alba del primo giorno che spuntò su la terra! Ahi, tristo me! tu mi hai ingannato:… a voi tutte, femmine, Eva donò l’arte di presentare all’uomo la morte sotto la specie di un frutto.”
La giovinetta rimaneva come sbigottita da cotesto linguaggio; la cagione dello sdegno non comprendeva; grosse lacrime le scorrevano lungo le guance; sentiva un immenso duolo opprimerle il cuore pronto a scoppiare: alla fine proruppe e, precipitandosi a terra, abbraccia in atto d’ineffabile angoscia le ginocchia di Vico. Questi a sua posta si smarrisce, le parole gli mancano, sta incerto su quanto dicesse o facesse.
“Oh! non mostrarmiti sdegnato”, favella la vergine: “In che ti offesi? Se non lo sapendo ti recai ingiuria, perdona; io sono semplice, e avvezza agli usi di villa… io non sorgerò da terra finché tu non mi abbi perdonato…”
Ebbro di amore Vico le stende le braccia e esclama:”Sorgi, sorgi; in questo modo atteggiata appena dovresti presentarti al cospetto della Divinità”.
“E tu, Vico, sei la mia Divinità…”
“Or dunque mi ami?…” E la solleva esultante.
“Se amore significa sentire la vita soltanto quando io ti veggo ed essere dolente quando mi stai lontano e pregare il cielo che ti conservi; se amore significa fiamma ardente che mi scorre dal capo alle piante allorchì mi comparisci davanti, se udirti in ogni suono.., se in ogni oggetto vederti, se… se… questo significa amore, sopra tutte le cose io t’amo”.
“Mi ami?”
“Oh! tanto!… oh! tanto!…” E palma percoteva a palma.
“Or dunque vieni, prostrati qui davanti la immagine della Vergine; ecco mi prostro anch’io; giurami che tu sarai mia donna”.
“Lo giuro”.
“E che fuggirai gli sponsali di qualsivoglia altro uomo”.
“Lo giuro”.
“E che, morendo io, ti renderai monaca e finché ti duri la vita continuerai a ripararti nel chiostro”.
“Questo non giuro io”.
“Perché nol giuri?”
“Perché la morte mi scioglierà subito dai penosi legami; e per la striscia luminosa che lascerà nel firmamento la tua anima al cielo volando ti seguirà la mia, fedele ancella nella morte, siccome ti fui nella vita”.
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