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“E tu, Vico, sei la mia Divinità…”
“Or dunque mi ami?…” E la solleva esultante.
“Se amore significa sentire la vita soltanto quando io ti veggo ed essere dolente quando mi stai lontano e pregare il cielo che ti conservi; se amore significa fiamma ardente che mi scorre dal capo alle piante allorchì mi comparisci davanti, se udirti in ogni suono.., se in ogni oggetto vederti, se… se… questo significa amore, sopra tutte le cose io t’amo”.
“Mi ami?”
“Oh! tanto!… oh! tanto!…” E palma percoteva a palma.
“Or dunque vieni, prostrati qui davanti la immagine della Vergine; ecco mi prostro anch’io; giurami che tu sarai mia donna”.
“Lo giuro”.
“E che fuggirai gli sponsali di qualsivoglia altro uomo”.
“Lo giuro”.
“E che, morendo io, ti renderai monaca e finché ti duri la vita continuerai a ripararti nel chiostro”.
“Questo non giuro io”.
“Perché nol giuri?”
“Perché la morte mi scioglierà subito dai penosi legami; e per la striscia luminosa che lascerà nel firmamento la tua anima al cielo volando ti seguirà la mia, fedele ancella nella morte, siccome ti fui nella vita”.
“Dio onnipotente, gran mercì!” – esclama Vico, premendo con ambe le sue le mani della donzella: “qual merito avevo io mai onde tu mi compartissi tanta contentezza?”
“Ludovico Machiavelli alla rassegna!” Si udì gridare una voce forte e unito alla voce un percuotere raddoppiato all’uscio di strada.
“Ah! Il capitano Ferruccio”, – dice Ludovico e, balzato in piedi, lasciando le mani della donzella, precipita fuori della stanza.
Annalena correndogli dietro lo richiama:
“Vico! Vico! anche un istante… una parola.”
“Il capitano Ferruccio”, – rispose Vico e continua ad allontanarsi.
Annalena si fece al balcone e vide il suo diletto il quale, vergognoso in vista, seguiva un uomo d’arme per aspetto e per dovizia di armi notabile. Però non udendo Vico, siccome aveva temuto, muoversi dal capitano alcuna rampogna, riprese animo e, voltosi di repente, vide la fanciulla al balcone, e studioso di giustificare la subita partita, le mandò una voce sola, e fu questa:
“Libertà!”
La vergine, fatta delle mani croce, e dimessa la testa in atto di rassegnazione, rispose anch’ella con una parola:
“Sia!”
Capitolo Undecimo
Il profeta Pieruccio
Molto tempo innanzi che le cose narrate accadessero, Malatesta Baglioni certa notte, dopo avere dato volta ora sopra un fianco ora su l’altro, non trovando riposo, balzò da letto dicendo: “Ma Cencio perché tarda tanto a tornare? Se Cencio mi tradisse, se a quest’ora stesse davanti al gonfaloniere dicendogli: Magnifico messere Carduccio, Malatesta vi tradisce… se già si movesse il bargello.... se il carnefice.... ah! Chi è là? Nessuno. Come dura lunga la notte! Questo Cencio oramai ne sa troppe....”
S’intende lo scalpito lontano di cavallo… si accosta… si è appressato… scende il cavaliere, entra nel palazzo Serristori, salisce frettoloso le scale.
“Questi è Cencio; riconosco i suoi passi. Lui ne sa troppe.... ne sa troppe; Cencio potrebbe tradirmi, è colmo sino alla bocca…, bisogna torcelo dinanzi… mezzo palmo di lama, o tre grani di tossico lo spingeranno tant’oltre da non temerne il ritorno. Cencio… – O Cencio, sii il benvenuto, figliuolo mio, ti aspettava....”
“Davvero? rispose Cencio gittandosi sopra una sedia, dove stirò le braccia e tese le gambe con plebea dimestichezza; – quindi a poco a poco continuava: “Ho sonno, fame e sete.... Malatesta, datemi da bere”.
Il sangue baronale del Baglioni si rimescolava da cima a fondo; un moto delle labbra svelò il cruccio dell’anima, ma potente com’era a simulare ridusse quel moto in sorriso, empì una tazza di vino e, la porgendo a Cencio, favellava:
“Bevi, Cencio, e confortati.... la tua vita mi preme quanto la mia....”
“Ahimé tristo! sarò io a tempo domani per testare delle cose mie?”
“Ch’ì questo, Cencio?”
“Nei tanti anni che facciamo via insieme verso l’inferno mi sono accorto, o Malatesta, che quando vagheggiate oltre il consueto qualche famigliare, voi lo avete già in cuor vostro condannato alla morte. Orsù, se mi deste il veleno, ditemelo, ond’io mandi in tempo pel notaro e pel confessore.”
“Lascia il motteggio, Cencio: papa Clemente accettava il trattato?”
“Più gli aveste domandato, più vi avrebbe promesso; e meno vi manterrà.”
“E la indulgenza, Cencio, l’assoluzione?....”
“Ahi l’assoluzione.... già anche questa.... e questa, non dubitate, vi manterrà… non costa nulla…”
Il sole, assai alto, penetrava coi lucidissimi raggi traverso le imposte della stanza del Malatesta, quando uno dei suoi fanti percosse alla porta con molto riguardo. Malatesta, il quale non ben dormiva, ma se ne stava mezzo assorto in cotesto assopimento più assai tormentoso della veglia, perché le cause di terrore ti si mescolano confuse senza seguito nel pensiero, di subito domandò che fosse.
“Magnifico messere, un mazziere della Signoria.”
“Della Signoria! Cencio! o Cencio! odi tu? un mazziere della Signoria....”
“Che ora fa, Malatesta?”
“Un mazziere della Signoria”.
“Buona nuova”.
“Ed io la temo avversa”.
“Avete torto, s’ella fosse avversa, non ve la farebbero notificare per mezzo di mazziere. A gente come siamo noi prima mozzano il capo, fanno poi il processo; animo, su, Malatesta, questa ì una buona nuova”.
“Dio voglia che sia così. Avanti il mazziere”.
Entra il mazziere con grave cerimonia, vestito di scarlatto, con la insegna del cuoune sul mantello, e salutato il Malatesta, gli espose con solennità il suo messaggio.
“Strenuissimo e magnifico messere Malatesta, essendo finita la condotta di don Ercole principe di Ferrara, piacque ai signori Dieci, ragunata la Pratica, mandarvi alle fave per subentrargli nell’ufficio di capitano generale della Reppublica. Essendo stato vinto a favore vostro il partito, il magnifico gonfaloniere mi manda a darvene avviso e a pregarvi di stare pronto a riceverne la investitura questa stessa mattina con le consuete solennità nella Chiesa di Santa Maria del Fiore”.
“Stamane! appunto stamane! ebbene, andate e riferite ch’io, con le ginocchia della mente chine, ne rendo loro quelle grazie che so e posso maggiori…”
“Addio, messere”.
“Cencio, dov’è la lettera del papa?”
“Qui sopra la tavola; io l’ho ricoperta con la zimarra di velluto”.
“Tu meriti ch’io ti faccia imbalsamare: porgimela; d’ora in poi non mi uscirà di dosso”.
E se la ripose insieme colla borsa nella tasca laterale delle larghe brache alla spagnuola. Io pertanto non esporrò siffatta cerimonia, poichì se mai, o lettore, ti avvenisse visitare Firenze, andando al palazzo Gaddi ti occorrerà dipinta in un bel quadro del Rosselli, o del Pomarancio; solo ti dirò che il gonfaloniere nel consegnare a Malatesta le insegne della sua nuova dignità, oltre all’avergli più volte rammentato la morte acerba di suo padre Giampagolo, concluse:
“Piglia dunque, illustrissimo signore, piglia prodissimo campione ed invittissimo general nostro, con fausto auspicio di te e di noi da me gonfaloniere e da questa inclita Signoria in nome di tutto il magnifico popolo fiorentino, questo stendardo quadrato ricamato di gigli, questo elmetto di argento smaltato medesimamente di gigli, arme del comune di Firenze, e questo scettro di abete così rozzo e impulito com’egli è, in segno, secondo il costume nostra antico, della superiorità e maggioranza tua sopra tutte le genti, munizioni e fortezze nostre, ricordandoti che in queste insegne quali tu vedi, ì riposta, insieme con la salute e rovina nostra, la fama e la infamia tua sempiterna”.
Malatesta abbracciò quasi commosso le insegne, e tra le pieghe dello stendardo nascose la faccia, sulla quale mandò il pudore il suo ultimo addio. Certamente avrebbe arrossito anche Satana. Poi piegò le ginocchia per proferire il giuramento solenne dinanzi all’argenteo altare, dove molti capitani avevano giurato prima di lui, come Raimondo da Cortona, Bernardone delle Serre, il conte di Pitigliano ed altri non pochi, nessuno però con animo deliberato, come il Baglione, di tradire la Repubblica. Ora volle fortuna che, mentre lui si china, gli uscissero dalla tasca, dove le aveva riposte, la borsa e la lettera di papa Clemente. Dove siffatta lettera fosse stata spedita in forma di breve, toccava Malatesta l’ultimo istante di vita: fu sua ventura somma che non vi avessero apposto il suggello del pescatore, o segno altro qualunque il quale dichiarasse la sua origine. Dante da Castiglione, che gli stava vicino, raccolse la lettera e la borsa, e tentato Malatesta nel braccio, gli parlò sommesso:
“Capitano generale, vi ì caduto roba di tasca”.
“Qual roba?”
“Una carta e una borsa”.
“Una carta! Ah! la lettera!” – E tinto del pallore della morte, – “Spero, proseguiva, o messere, che vorrete rispettare il segreto di un foglio capitatovi per questa via nelle mani”.
Cencio, quel suo fedele così corrivo a pungerlo di parole, eragli poi legato per la vita con le opere; senza Cencio, Malatesta non avrebbe impreso tanti avviluppati disegni, o senza fallo vi si smarriva dentro. Cencio poteva chiamarsi l’angelo custode del delitto; ed ora vedendo lo imbarazzo dei suo signore, lo soccorse piegandosi all’orecchie del Castiglione per susurrargli con arcano:
“Egli è concio fino all’osso di male francese, e pur non si rimane dal mantenere commercio con femmine di ogni maniera”.
“Quando anche”, – risponde il Castiglione al Malatesta toccando con la mano destra la lettera, ve la mandasse papa Clemente, conosco troppo gli uffici di gentiluomo per prevalermi nel caso… Prendete, capitano generale…”
Malatesta stendendovi sopra prontissime le mani, aprendo le labbra ad un sorriso, mentre gli stavano i denti stretti pel freddo della paura, sibilò in certo modo le parole che seguono:
“E’ sarebbe, messere, bene strana novella che io mi presentassi a giurare fedeltà co’ patti del tradimento sopra la persona....” Ormai il cuore di Malatesta ha messo il tallo sul delitto; i suoi fati lo tirano.
Intorno alla croce vicino al palazzo sopra la base giace con la faccia stesa a terra un uomo vestito di sacco, cinto di corda traverso i fianchi, nudo le braccia, le gambe, i piedi scalzi; le chiome folte e sordide gli si ripiegano sopra la fronte; le mani tiene giunte in atto di orare: estenuato più che a corpo tuttora vivo si sarebbe creduto possibile; se mai vedeste il san Giovanni dal Donatello condotto in bronzo, avrete idea più completa di questa creatura e a me risparmierete la fatica di meglio efficacemente descriverla. Costui aveva nome Pieruccio. Chi è Pieruccio? Nessuno sa dire se venisse a Firenze piovuto dal cielo, o se ve lo avesse balestrato la terra, come il vulcano una pietra; quanti anni contasse ignoravano: la sciagura aveva prevenuto l’età nella rovina, e il tempo non trovò ruga da aggiungere o contorno da guastare; le intemperie perdevano forza sopra di lui, le infermità non l’offendevano; forse le tribolazioni alle quali va sottoposta la rimanente specie umana volevano rispettare intanto quel santuario di dolore.
I fanciulli quando lo udivano profetare per la via, gli gridavano dietro: Pazzo! pazzo! – e ai gridi aggiungevano sassate e offese d’ogni maniera. Il povero Pieruccio si volgeva e in suono pietoso domandava: Perché mi offendete? Ma i fanciulli, tratti da naturale vaghezza a mal fare, ché in ciò mi trovo d’accordo con santo Agostino[16], non gli attendevano, anzi vieppiù lo infestavano, sicchì talvolta, la pazienza mutata in furore, ne afferrava alcuno, la mano alzava a percuoterlo, ma, vinto all’improvviso da tenerezza, lo rimandava baciandolo e benedicendolo. In Gerusalemme per avventura lo avriano adorato, poi forse crocifisso come profeta; a Firenze alcuni lo salutavano santo, più molti lo tenevano matto; chi avesse ragione non saprei, e chi torto nemmeno; forse dipendeva dal punto del quale lo consideravano; certamente amava la patria. Quando gran parte della milizia ebbe passata la croce, ecco ad un tratto lui balza in piedi come tolto fuori di sì, porge la destra mostrando un teschio umano al popolo ed esclama:
“Meglio per voi se le vostre teste fossero come questa inaridite; almeno qui dentro stanziano le formiche e talvolta anco le vipere, nelle vostre poi non trova luogo nì anche un pensiero. La maledizione di Dio vi ha percosso; – avete gli occhi e non vedete, avete gli orecchi e non ascoltate. Guai a te, o Firenze! Chi vuole intendere intenda”.
Frattanto Malatesta e la sua comitiva si accostano tanto alla croce che di leggieri possono intendere le parole del profeta. Il Pieruccio nel vederselo comparire davanti non muta aspetto, non varia discorso, anzi indirizzandosi baldanzoso al Baglione, “Ecco”, – esclama, – “ti riconosco all’impronta di Caino; nì cotta di arme nì carne od ossa nascondono allo sguardo di Cristo il pensiero del tuo cuore. Altri ha tradito il Figliuolo di Dio, tu ne tradisci la figlia… però che la libertà nacque del primo palpito di compassione che il Creatore sentì per la sua creatura… Pentiti! Se Giuda ì tormentato settanta volte, tu lo sarai settanta volte sette…”
“Toglietemi dinanzi quel pazzo!” – grida Malatesta con labbri tremanti… – “cacciatelo via… trucidatelo…”
“Addosso! Al matto! Ammazzatelo! Ammazziamolo! – Ì un profeta. – Se la intende col diavolo. – Tacete, impostore, avrebbe dato la posta al diavolo a piì della croce? – Ì un santo, vi dico. – Un ladro, ammazziamolo”. Così le turbe; e il Pieruccio, con tale una voce che superò il mugghio delle turbe proruppe:
“Tu sarai tormentato settanta volte sette!”
Frattanto Signoria e il Baglione procederono in silenzio. Giunti presso al palazzo, Malatesta facendosi più dappresso al Carduccio, gli favellò:
“Spero, magnifico messere, che vi darete ogni cura di porre al martore il ribaldo che in me per ben due volte oggi offendeva la maestà della Repubblica, e quindi, come conviene, gli mozzerete la testa”.
“Strenuissimo capitano, gli Otto e la Quarantia hanno potestà di far sangue, non io; provvedetevi davanti a cotesti magistrati… Ma tornerà poi in onor vostro, messere, contendere col pazzo? – Pensateci!…”
“Se lo tenete per matto, allora chiudetelo”.
“Prima dei pazzi vorrebbersi sostenere uomini bene altramenti pericolosi alla città, Malatesta…”
“E quali, messere?”
“I traditori”, – concluse il Carduccio.
Capitolo Decimoterzo
L’assalto notturno
Nella tenda di Filiberto principe di Orange giocavano chi a dadi, chi a scacchi, giochi, se la tradizione ci racconta il vero, trovati da Palamede all’assedio di Troia; e più a carte come le inventò il Grignoart, per trastullo all’imbecilità di Carlo VI re di Francia, o modificate a tarocchi, scoperta non invidiabile degl’ingegni fiorentini, i quali vollero significare nei re, nel diavolo, nel papa e nelle rimanenti figure scherno o ira contro le fazioni prevalse nel governo della Repubblica: carte e figure le quali adesso non rappresentano più nulla, tranne un consumo di tempo che, attesa l’erpete morale della presente società, non può riputarsi male impiegato per la ragione che diversamente si correrebbe rischio d’impiegarlo anche peggio.
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